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Roberto Marchesini – Alterità. L’identità come relazione – Prefazione di Ubaldo Fadini [Mucchi Editore, Modena 2016, pp. 189, € 16]


Alter di un ego che non allenta la presa, orbita di un anthropos solitario e imperialista che tutto riconduce al suo sé, alle oscure cavità di un’interiorità inaccessibile alla voce dell’eteron. Posseduto e misconosciuto: è questo il destino dell’altro che viaggia all’ombra dell’uomo vitruviano e delle pretese autarchiche avanzate in nome della sua immagine. Da sempre proiettato alla «fagocitazione compulsiva di mondi», l’io di memoria umanistica dichiara assoluta fedeltà a se stesso ma finisce, così, per non riuscire più a dimenticarsi. Roberto Marchesini la chiama «narcosi narcisistica» e, nel nuovo libro Alterità. L’identità come relazione, che segna l’esito di un lungo percorso finalizzato all’affermazione di un pensiero antropodecentrato, conferma che no, nel solco del post-human, non c’è più spazio per l’autoreferenzialità. Le infinite possibilità del pluriverso contemporaneo prescrivono l’urgenza di una riconsiderazione della soggettività, al di fuori delle astratte ragioni dello sguardo tetico, che ha determinato la storia della cultura occidentale. Spossessato del suo secolare privilegio ontologico, l’animal rationale, autopoietico, disincarnato, incontaminato fa un passo indietro rispetto al suo conatus e si riscopre, già da sempre, in dialogo. A richiederglielo è l’«esuberanza» stessa dell’esperienza che, sottratta alla rigidità delle dicotomie della logica identitaria, diviene, nelle sue irriducibili ambivalenze, il terreno privilegiato dell’ontologia relazionale. Abbandonate le tendenze teoretiche tipiche della speculazione pura, il soggetto di Marchesini, «percorso storico d’incontri», rinuncia alla fissità dei predicati già dati per affacciarsi al mondo come a «un millepiani da visitare senza l’ossessione dello specchio» (p. 21). Dall’egomania all’ecologia attraverso il naufragio del cogito, finalmente «il vestito si scioglie e il re manifesta la sua nudità, che altro non è se non la permeabilità costitutiva dell’essere alle alterità» (p. 37). Ecco, sin dalle prime pagine, il manifesto della «rivoluzione post-umanistica»: non più avviluppato su se stesso, né tuttavia dissolto nell’esteriore, l’io accetta la sfida lanciata dalle eteroreferenze, accoglie la virtualità che sfugge alla morsa della previsione, avanza, senza timore, verso il nuovo sempre a-venire.Risvegliata dal suo «stordimento essenzialistico», alleggerita dagli oneri delle sue a-prioristiche determinazioni, la monade incrocia l’ibrido e si abbandona al «flusso dionisiaco che attraversa il vivente, la cui natura è sì corpuscolare – potremmo dire apollinea – ma altresì ondulare, vale a dire corale…» (p. 22). Come un inno alla vita, il post-human reclama l’abdicare della forma in cambio di rapporti creativi con l’eterospecifico che rappresentano il motore stesso dell’ontopoiesi: le molteplici «opportunità abitative» offerte dall’incontro con l’alterità presuppongono la messa in atto di sempre rinnovate strategie di adattamento, che modificano l’apparato epistemico del soggetto e lo rendono simile a una «interminabile scala a chiocciola di dialoghi» (p. 55). La riuscita immagine dell’«origami diacronico», ripiegato in una «struttura proteica» di relazioni, rende, in maniera pregnante, il senso di questa identità in itinere che «si fa» a partire dall’interazione e, incurante delle esigenze dell’universale, si apre alle prospettive pluralistiche offerte dalla singolarità del reale: «essere soggettivi – ricorda Marchesini – significa quindi cambiare, mai essere uguali a se stessi, essere infedeli al proprio passato» (p. 96). Ma come si realizza, in concreto, questa possibilità di disancorarsi dalla propria coincidenza con sé? Nelle avventure del corpo che porta i segni della natura «eterotrofica» della filogenesi e che rammenta, all’io ancora tentato dalle seduzioni autoriflessive, che «siamo sempre stati ibridi» (p. 77), soprattutto quando, in preda all’inganno del dualismo cartesiano, abbiamo a torto rivendicato l’«emancipazione dall’animalità». Punto d’intersezione tra physis e logos, bios e techne, la dimensione somatica diviene infatti, nell’interpretazione post-umanista, il terreno stesso della possibilità del co-esistere: «nel volgere di fine millennio – spiega l’autore – il corpo torna al centro della scena. Ma non lo fa per denudarsi, martoriarsi, decostruirsi ovvero per rendersi trasparente allo sguardo diretto […]. Si fa teatro per accogliere elementi-estranei, fa bella mostra delle proprie infezioni e contaminazioni, esplicita la propria liquidità e le metamorfosi possibili […]» (p. 150). A risorgere dalle ceneri di una ragione astratta e totalizzante è dunque un individuo incarnato che nell’«evento ibridativo» riconosce, come un «viandante nella notte» l’imponderabilità del suo viaggio. Da questa prospettiva, anche la tecnologia, erroneamente concepita come «risarcimento» rispetto alla natura deficitaria dell’essere umano, giunge a configurarsi come potenziale apertura di nuovi orizzonti coniugativi col mondo, proprio in quanto stimola il corpo a «reiventarsi» al di là del proprio limes. Marchesini paragona il processo tecnopoietico a un «innamoramento che ci rende più potenti ma parimenti più vulnerabili» (p. 179), esposti agli inediti scenari dispiegati dalla ricezione di un’alterità che si fa hospes del sé. Siamo in prossimità della soglia, dove l’altro è esperito non più per essere incluso o reificato, ma accolto come un «figlio da salvare» (p. 19). Figlio che rivolge il suo appello alla «nostra natura femminile di mammiferi» (p. 19) e ci chiede, al tempo stesso, di non dimenticarci che siamo anche «rettili confusi» dalla dimensione terrestre che cercano, nella «notte del Giurassico», il «conforto dell’acqua» (p. 57) o ancora cyborg rivolti ai nuovi mondi che la «psichedelia» dell’artificiale disvela.Dall’«altro-da-sé», ridotto e rimosso, all’«altro-in-sé», riconosciuto e ospitato: il peso del post-human è tutto qui, nell’ibridazione che depotenzia l’operato della hybris ed erode il centro per far posto a quel «sottile margine di relazione» in cui, finalmente, «la vita respira» (p. 59). Eteroriferito ab origine e de-soggettivizzato, nella dimensione dialogica «mi ritrovo, ritrovo la certezza del mio esistere, del mio precedere questa occasionale presenza, l’occorrenza dell’istante in cui m’interrogo» (pp. 44-45): esisto in quanto coesisto. Invertito il paradigma di Cartesio, a Marchesini non resta che spazzare via i residui solipsistici connaturati nell’Esserci di memoria heideggeriana che, in quanto «essere-nel-mondo» è sì un «essere-con», ma, in quanto «essere-per-la-morte», finisce col restare schiacciato dall’«avanti-a-sé» come dalla sua possibilità più propria e più isolante. «Eppure – ribatte l’autore – la vita sussume l’essere per la morte e non il contrario, la vita trasforma la morte in una fenice, come le foglie che in autunno ridonano il loro contenuto linfatico al grande Dioniso per poi cadere infine ai suoi piedi» (p. 61). Laddove il memento mori condanna il Dasein a una solitudine senza scampo, quello di Marchesini suona come un appello a farsi-per-l’altro e a rinvenire, in esso, i presupposti del proprio essere-per-la-vita. Identità come relazione, dunque. Identità «in-quietata», nel suo «eroismo», dall’apparizione dell’alterità. «Il volto dell’altro rompe il mio riflesso alla fonte, l’ombra s’increspa e fatico a comprendere ciò che mi sta di fronte […]. Nei suoi occhi ritrovo quelle matrici coniugative che alimentano la mia esistenza come convivio» (pp. 19-20). Tra le righe, tutta la portata dello spossessamento che percorre l’etica levinasiana, riferimento più o meno esplicito – senz’altro costante – di un testo che si presenta, sin dal principio, come un’apologia dell’ospitalità, un continuo «esercizio di riconoscimento» dell’alterità al di fuori dell’orbita egomorfizzante della coscienza. Ma qui l’epifania dell’altro non parla più attraverso il volto dello Straniero, della vedova e dell’orfano, o almeno non solo. L’ospite ricevuto è sempre l’esito di «commerci transpecifici» avvenuti in regioni in gran parte non umane. Oltre Lévinas, dunque, ma non per questo fuori dall’umano. Piuttosto: fin nelle profondità delle sue alchimie ibridative, nell’eredità dei suoi dialoghi eteroriferiti che segnano il tracollo di ogni gerarchia. Tratteniamo, allora, di quell’Umanesimo dell’altro uomo, il senso dell’eccedenza che, incontenibile, spinge verso l’esterno e, deviando dall’itinerario del sé, si fa lode al nuovo che sempre comincia. Potrebbe allora non essere azzardato, chiosare l’interessante prospettiva sull’alterità rilanciata da Marchesini, attingendo, ancora, all’eterna fonte del Talmud: «Se non rispondo di me, chi è che risponderà di me? Ma se rispondo solo di me sono ancora io?».

Rosa Spagnuolo Vigorita

S&F_n. 16_2016

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